Sul diritto di morire dignitosamente
In Italia il dibattito sul fine-vita, attuale e complesso, risponde ad una vera e propria emergenza sociale che vede contrapposte visioni diametralmente antitetiche: l’inviolabilità della libertà personale e l’inviolabilità della vita umana.
Da parte di certe forze politiche esiste ancora una forte resistenza nell’accantonare pregiudizi e convinzioni morali, etiche, religiose a favore di un diritto proprio dell’individuo, quello all’autodeterminazione personale, che include anche il diritto di disporre del proprio corpo e di congedarlo dalla vita in modo dignitoso. Perchè nessuno può sostituirsi al sofferente nella valutazione della soglia del dolore oltre la quale la vita diventa inaccettabile.
Un tormentato decennio normativo
Al momento la discussione verte sul Disegno di legge approvato il 2 luglio dalle Commissioni Giustizia e Sanità del Senato chiamate a dare attuazione ai principi fissati nel 2019 dalla Corte Costituzionale circa le modalità di regolamentazione del diritto all’autodeterminazione del paziente nelle fasi terminali della propria vita. Ma diversi sono stati i disegni di legge che da oltre un decennio hanno animato la discussione sul fine-vita. Nel 2013, grazie ad una proposta di legge popolare sostenuta dall’Associazione Luca Coscioni,

l’Italia approvò la legge sul testamento biologico, mediante il quale il testatore affida al medico le sue volontà circa i trattamenti sanitari da accettare o rifiutare in caso di futura perdita della capacità di autodeterminazione per malattia acuta o degenerativa invalidante. Redatto con un’attenzione simile a quella con cui vengono stilati i testamenti tradizionali e dotato di analoga certezza legale, il documento risponde al principio secondo cui nessun trattamento sanitario può essere perseguito senza il consenso libero e informato della persona interessata: uno strumento semplice ed efficace per responsabilizzare il paziente, renderlo partecipe in maniera diretta del processo terapeutico e metterlo al riparo da eventuali abusi (accanimento terapeutico). Insieme al testamento biologico e in forza dell’emanazione della L.219/2017, vennero poi introdotte le Direttive Anticipate di Trattamento (DAT): un atto, da redigere in forma scritta o videoregistrata, che consente ad ogni paziente (in particolare, a quelli affetti da malattie croniche o progressive e irreversibili) di indicare le linee-guida da osservare nell’ipotesi in cui in futuro dovessero trovarsi nell’impossibilità di esprimere le proprie volontà. Promuovendo un approccio centrato sulla persona e sulla sua dignità, il documento riconosce ad ogni soggetto interessato il diritto di decidere liberamente e consapevolmente sugli interventi di sostegno vitale, seppur indispensabili per la propria sopravvivenza. Gli viene, cioè, offerta la possibilità di una pianificazione delle cure da condividere con il medico; tant’è che, una volta redatta, la regolamentazione diviene vincolante per tutto il personale sanitario. Solo in un caso le DAT potrebbero essere disattese dal medico: nella circostanza in cui nel frattempo fossero sopravvenute nuove scoperte medico-scientifiche, non prevedibili al momento in cui il paziente avrebbe manifestato il consenso, che risultassero idonee a migliorarne sensibilmente la condizione psicofisica.
L’attuale diesgno sul fine vita
Il testo sul fine-vita, che approderà in Senato il 17 luglio, sembra cancellare di fatto il diritto all’aiuto medico alla morte volontaria, restringendone drasticamente i criteri di accesso. Due risultano essere le condizioni per accedere al suicidio medicalmente assistito: l’obbligatorietà dell’inserimento in un percorso di cure palliative trasformate in un trattamento sanitario obbligatorio (nella sentenza n. 242/2019 la Corte Costituzionale aveva sottolineato l’importanza di coinvolgere i pazienti in un percorso di cure palliative, ma non lo aveva indicato come requisito obbligatorio) e l’istituzione di un Comitato Nazionale di Valutazione di nomina governativa -l’equivalente di un Tribunale speciale della morte, grottescamente sussidiario a quello della magistratura- creato al solo scopo di esprimere un parere circa la non punibilità dei concorrenti nel reato di istigazione o aiuto al suicidio di cui all’art. 580 C.P. In sostanza, un malato terminale o in condizione di totale irreversibilità dovrebbe presentarsi al cospetto di questo organismo di consultazione solo per chiedere gentilmente di prosciogliere anticipatamente l’operatore sanitario che, aiutandolo a morire, si limiterebbe ad agevolare la realizzazione di un proposito di suicidio che si era liberamente formato. Merita forse ricordare che nel 2019 la Corte introdusse una discriminante per il reato di incitazione (art.580 C.P.) da imputare a chi “agevola l’esecuzione del proposito di suicidio… di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile…ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”: chiunque istighi al suicidio o rafforzi l’altrui proposito di suicidio oppure ne favorisca in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito con la reclusione da 5 a 12 anni se il suicidio si verifica; da 1 a 5 anni se, invece, il suicidio non avviene, ma dal suo tentativo discende una lesione personale grave o gravissima.

A prescindere dall’aspetto legale resta, comunque, il fatto che ad organizzare il suicidio assistito dovrebbe provvedere il malato stesso in totale autonomia: oltre ad estromettere il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) dalle procedure di verifica dei requisiti, il disegno di legge sembrerebbe escludere che il suicidio assistito possa realizzarsi in seno a strutture sanitarie nazionali con l’ausilio di strumentazioni, farmaci e personale di cui il SSN dispone.
Il coraggio della Regione Toscana
Apprezzabile il coraggio della Regione Toscana che, dopo la sentenza n. 242 seguìta all’udienza del 24 settembre 2019 con cui si decise di disapplicare l’art. 580 C.P. e, quindi, liceizzare la condotta di agevolazione al suicidio assistito purchè ancorato a particolari cautele, infranse il silenzio parlamentare dicendo sì al disegno di legge sul fine-vita promosso dall’associazione Coscioni, che disciplinava le procedure e i tempi per l’assistenza sanitaria regionale al suicidio medicalmente assistito: rendendo la Toscana la prima regione italiana ad avere una legge in materia (L.16/2025), la proposta sul suicidio assistito, ammessa solo nei casi in cui la malattia risulti incurabile e irreversibile, venne approvata a larga maggioranza nel marzo 2025 dopo essere stata emendata in Commissione Sanità. Purtroppo tale disposizione è stata oggetto di ricorso da parte del Governo, che ha sollevato questioni sulla sua legittimità costituzionale. Ciò che è stato contestato è la competenza della Regione Toscana a legiferare in materia di morte volontaria medicalmente assistita, ritenuta di spettanza statale.
Il limiti dell’eutanasia
A tutt’oggi le disposizioni in seno al Codice Penale non lasciano margine ad un’interpretazione favorevole all’eutanasia: la condotta che cagiona la morte -posta in essere da un terzo- pare potersi sussumere all’interno della fattispecie dell’omicidio del consenziente di cui all’art.579 C.P. Ciò che suscita maggiori perplessità è la figura del soggetto terzo (il medico) che interviene nella pratica eutanasica per anticipare la morte del paziente quando la sua vita risulti ormai priva dei caratteri della vivibilità. Sta proprio qui il limite del diritto all’autodeterminazione del paziente circa il proprio corpo, nell’interferenza della terza persona per quanto il suo intervento venga praticato al solo scopo di andare incontro alle più profonde esigenze del malato: la somministrazione del farmaco letale non è finalizzata alla morte del paziente, ma alla necessità -per sua espressa volontà- di conferire dignità ad un’esistenza irrimediabilmente invivibile. Secondo l’ordinamento italiano il soggetto può liberamente darsi la morte, ma non può validamente consentire che un terzo si renda strumento di morte, neppure a fronte di una libera e consapevole determinazione in tal senso, perchè l’omicidio del consenziente si configurerebbe pur sempre come un omicidio, anche se meno grave rispetto all’omicidio comune.

Vitalismo medico VS eutanasia
La vita e la morte sono due facce della stessa medaglia, entrambe facenti parte dell’esistenza umana. Ma non sempre questo viene rammentato, tant’è che scienza e tecnica, spingendosi sempre più oltre nella ricerca di risposte al desiderio di longevità, hanno aperto la strada al cosiddetto accanimento terapeutico. Nel corso degli anni si è assistito, infatti, ad una progressiva valorizzazione delle cure palliative volte a garantire al paziente modalità di degenza tali da attenuare le sue sofferenze. Ma tale aspetto non si è rivelato sufficiente, soprattutto in ipotesi di patologie gravi e irreversibili. Da qui, la necessità di garantire il principio di autodeterminazione ponendo al centro della tutela giuridica la persona umana e la sua facoltà di scegliere liberamente le cure cui sottoporsi, in un percorso certamente condiviso con il personale medico, ma dove l’ultima parola spetti al paziente.
Inviolabile il diritto dell’autodeterminazione
Il diritto all’autodeterminazione individuale, e quindi al principio di inviolabilità del libero esplicarsi della libertà personale che pone lo Stato al servizio dello sviluppo della persona umana, è oramai parte del nostro ordinamento. Esso comprende anche il diritto di disporre del proprio corpo: l’assoluta centralità della persona, il cui valore permea l’impianto costituzionale, vieta ogni violazione del diritto alla disponibilità del proprio corpo senza la volontà della persona. Il riconoscimento del diritto di rifiutare le cure sanitarie, di richiedere la sospensione di un trattamento di sostegno vitale e di redigere un testamento biologico rimettendo la scelta in capo alla persona interessata, sono i significativi traguardi raggiunti dal nostro Paese negli ultimi anni. Anche se la nascita del diritto all’autodeterminazione terapeutica, condiviso dalla dottrina e dalla giurisprudenza, deve essere collocata al di fuori della Carta.
Vero è, infatti, che nel corpo delle sue disposizioni il Testo costituzionale non esprime alcuna nozione diretta di autodeterminazione della persona, ma rimanda al disposto dell’art.2: solo con il rinvio ai diritti inviolabili di cui all’art.2, quello all’autodeterminazione viene ad essere tutelato, e quindi diventa diritto a tutti gli effetti, in senso giuridico oltrechè ontologico.
Non tutti i diritti sono espressamente enumerati nel catalogo costituzionale. Alla Corte costituzionale va, pertanto, riconosciuto il merito di aver operato in una prospettiva espansiva ed inclusiva, ovvero di aver ricondotto all’ordinamento costituzionale valori personali non espressamente garantiti, ampliando così gli spazi di tutela dei cittadini e delle persone. Questo è il motivo per cui la condotta di chi si limiti ad agevolare la realizzazione di un proposito di suicidio, liberamente formatosi, dovrebbe essere considerata come un comportamento penalmente inane, in quanto volta unicamente a garantire il diritto fondamentale all’autodeterminazione personale sulle scelte del fine-vita, riferite ad un’esistenza ritenuta, per circostanze oggettive, non più dignitosa dal suo titolare.











