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In modo inatteso e anacronistico negli ultimi tempi si è tornati a parlare di Patriarcato. Nei dibattiti televisivi e nelle manifestazioni di questi giorni che hanno preso le mosse, sia dalla ricorrenza della Giornata internazionale contro l’eliminazione della violenza sulle donne, sia dal femminicidio della 22enne Giulia Cecchettin, il Patriarcato è stato messo sotto accusa perché ritenuto responsabile della sopraffazione e della violenza maschile nei confronti delle donne, nella fattispecie di quella perpretata ai danni della povera Giulia. Forse che i mostri che si agitano nelle menti di coloro che aggrediscono una donna e ne divorano la vita con una ferocia incontenibile, sorgerebbero dalle derive di una tradizione patriarcale non ancora smantellata? Certo è, che a qualcuno o a qualcosa dovrà essere attribuita la colpa di queste innumerevoli stragi divenute oramai una piaga sociale. Ma è proprio vero che la responsabilità dei femminicidi e del loro tragico incremento sia da far ricadere sul Patriarcato, quell’apparato socio-familiare, ideologico e politico che per centinaia di anni è stato il caposaldo di ogni società?

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Il dominio del maschile

Patriarcato significa potere dei padri, un sistema caratterizzato dal pieno dominio che l’uomo esercitava in ogni ambito di potere, dalla gestione pubblica alla legislazione, dai riti religiosi alla vita coniugale e domestica,  praticando quella prevaricazione e oppressione sulla donna, relegata ad un ruolo di subalternità che informava qualunque settore della sua esistenza: la costruzione sociale dei generi, garante della distribuzione asimmetrica di funzioni e compiti in seno alla comunità, procedeva dall’attribuzione ideologica del potere al Maschile.

Logica conseguenza di questa matrice patriarcale era la violenza contro il Femminile che, elevata a ordinatore legittimo delle relazioni e dello squilibrio tra i generi, interveniva a buon diritto per ristabilire il giusto ordine naturale quando il Femminile lo trasgrediva, quando osava imporre un’altra identità di sé e della conseguente realtà dei suoi doveri e dei suoi poteri, dei suoi ruoli e delle sue relazioni. Erano, dunque, le donne le uniche responsabili delle violenze che subivano, perché colpevoli della violazione dell’assetto originario delle cose imposto da quel simbolico paradigma patriarcale che le sottometteva rendendole inferiori e a cui sempre corrispondeva la secolare impunità degli uomini e l’assenza di qualsivoglia loro imputabilità.

Costruzione socio culturale del patriarcato

Il Patriarcato non aveva alcuna spiegazione logica o etica, ma era alimentato da una sorgente di stampo autocratico. Rispondeva a tale logica, per esempio, l’avvicendamento dinastico che contemplava l’obbligo di far succedere al sovrano l’erede diretto, purché maschio; la stessa dinamica si riscontrava in passato anche nelle linee ereditarie che vedevano privilegiati i successori di sesso maschile. In epoca moderna il Patriarcato ha attenuato la sua impronta genealogica riferendosi, più in generale, al sistema sociale in cui il potere è prevalentemente detenuto da uomini adulti: verso la metà del secolo scorso la donna, considerata solo uno strumento domestico e riproduttivo, continuava ad essere confinata quasi esclusivamente in una dimensione familiare, ritenuta a quel tempo una ‘detenzione’ privilegiata poichè si riteneva che le donne potessero rifugiarvisi sottraendosi alle disagevoli fatiche del lavoro fuori casa, e ad una gravosa e inutile competizione con gli uomini. Perchè presupposto del Patriarcato era che le donne fossero afflitte da una minorità ontologica, intellettiva e sociale che le consegnava a non essere altro che oggetti passivi nelle mani dell’uomo.

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La rappresentazione del maschilismo

Il maschilismo, pura essenza dell’egemonia patriarcale, non accettava le donne nella loro libera e autentica espressione. Ma non aveva fatto i conti né con l’esasperante malessere interiore con il quale erano costrette a convivere sopportando una condizione innaturale fondata sul loro tacito consenso all’esclusione, né con l’emancipazione di folti stuoli di femministe che, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, cominciarono a scuotere le coscienze delle donne promuovendo campagne di sensibilizzazione e animando mobilitazioni di piazza contro il perpetuarsi di una cultura dominante maschile che il Patriarcato aveva imposto nel corso della storia. Rivolgendo la loro attenzione alla disparità tra uomo e donna e individuando nella diversità biologica, sessuale ed anatomica il presupposto a fondamento del predominio maschile, le lotte femministe  portarono al raggiungimento di importanti traguardi che trasformarono il ruolo della donna non solo in seno alla famiglia ma anche nella società.  Basti pensare alla riforma del diritto di famiglia del 1975 in forza della quale venne eliminata la potestà maritale; alla contraccezione che, già approdata in Europa nel 1961, sbarcò in Italia solo nel 1965; al divorzio che si è affermato nel 1970; all’aborto volontario introdotto nel 1978 a regolare l’interruzione di gravidanza. Ma anche al diritto al lavoro, grazie all’approvazione della legge sulla parità salariale e di trattamento nei luoghi di lavoro (L.903/1977). Nei medesimi anni ’70, alcune donne iniziarono poi a conquistare le prime importanti cariche elettive: nel 1976 Tina Anselmi ricoprì per prima la carica di ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale, mentre Nilde Iotti fu eletta presidente della Camera nel 1979.

 La fragilità umana del maschilismo

A fronte delle imponenti trasformazioni socio-culturali che hanno restituito alla donna il diritto di disporre liberamente della propria vita, la maschilità è divenuta sempre più fragile: desistendo dall’arroganza, dal predominio e dalla sicurezza di cui da sempre si erano impossessati in maniera indiscussa, gli uomini si sono faticosamente aperti alla loro intrinseca umana debolezza riconoscendo l’esistenza di una propria intima sensibilità carica di sentimenti ed emozioni, correlato irrinunciabile dell’esistenza umana. Una fragilità che, quanto più essi percepiscono, tanto più provano disperatamente a contrastare per riconquistare l’originaria supremazia, soprattutto in un’epoca come quella attuale, orfana di valori e dominata da arroganza e competizione sfrenata che non perdona alcuna debolezza. Ecco allora che per riaffermare sé stessi e recuperare l’originaria credibilità di dominatori, di esseri forti che non si arrendono mai, gli uomini tentano di dissimulare l’intrinseca vulnerabilità esibendo atteggiamenti da bulli, innescando azioni violente e offensive, e lesive forme di denigrazione e sopraffazione. Se poi la rabbia -legata, magari, ad un rifiuto di circostanza- prende il sopravvento, può diventare esplosiva e trasformarsi in reati ben più gravi.

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Sulle orme del patriarcato

Che la violenza di genere affondi le sue radici in un sistema culturale d’impronta patriarcale, è cosa certa. Ma è anche vero che il Patriarcato appartiene ad un’epoca che è storicamente passata; oggi il Patriarcato non esiste più, perchè le condizioni storiche sono cambiate. Il fatto poi che la visione androcentrica della società, tipica del Patriarcato, si sia diffusa nel corso dei secoli radicandosi così profondamente nelle menti da condizionare i nostri modi di agire sino all’epoca contemporanea, rappresenta un’altra prospettiva di osservazione del fenomeno: attraverso una lenta e inconscia incorporazione di schemi di percezione di sé e degli altri, propri delle strutture storiche dell’ordine maschile, il rapporto di supremazia dell’uomo sulla donna si è collocato in uno scenario caratterizzato dal perpetuarsi di un dominio maschile che, travalicando ogni cambiamento storico-temporale, si è sedimentato per acquisire l’abito dello stereotipo di genere. E lo stereotipo, si sa, rappresenta un modello rigido, resistente e prescrittivo. Ma anche replicabile, perchè gli stereotipi di genere, connessi ai ruoli storicamente ricoperti da uomini e donne, assicurano il perpetuarsi di un archetipo socio-culturale fondato sulla diseguaglianza e asimmetria di potere, contribuendo al mantenimento dello stesso. E’ vero che le donne sono oggi riconosciute come più capaci, ambiziose e assertive rispetto a qualche decennio fa, ma continuano ad essere percepite come calde, accoglienti e generose perchè, oltre agli impegni di lavoro, continuano a mantenere ruoli domestici e di cura. Il ruolo femminile è cambiato in alcuni settori, ma non in altri, mentre il ruolo primario dell’uomo (comandare, proteggere e provvedere al mantenimento) è rimasto costante con conseguente immutabilità della stereotipìa maschile.

La violenza di genere non è un destino

Sulla sottile crosta del Pianeta si subiscono a tutt’oggi profonde e ingiuste disparità di genere: ancora oggi le donne vivono all’ombra degli stereotipi che faticano ad essere superati. Purtroppo i diritti e il rispetto guadagnato negli ultimi decenni non sono ancora sufficienti per poter parlare di equità e pari opportunità nell’effettiva realtà delle cose: in un Paese che si proclama civile e cristiano dilaga una violenza inaudita che genera disperazione, sgomento e impotenza. Per alimentare l’impegno di una crescita nella civiltà in vista di un’umanità che possa veramente configurarsi come la famiglia di tutti, occorrerebbe un nuovo rinascimento, un nuovo ordine sociale fondato sulla dignità e libertà di ogni essere umano. Il cammino si presenta arduo, ma sempre attuale e possibile.


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Angela Gadducci
Author: Angela Gadducci

Angela Gadducci è una professoressa con incarico articoli per la sezione etica e società ma anche storia e cultura. Già Dirigente scolastica e Coordinatrice di Attività di Ricerca didattica presso le Università di Pisa e Firenze, è autrice di articoli e libri di politica scolastica. Significative le sue collaborazioni con le riviste Scuola italiana Moderna, Scuola 7, Continuità e Scuola, Rassegna dell’Istruzione, Opinioni Nuove, Il Mondo SMCE.

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