I neet e il mercato del lavoro
Spesso si dice che i giovani sono il nostro futuro. E a giusta ragione. Il loro benessere è in grado di accrescere quello di tutto il Paese; diversamente, il progresso subirebbe un rallentamento. Un individuo che non avesse la possibilità di garantirsi una sicurezza di base, non potrebbe mai concedersi il privilegio di scelte autonome e responsabili nei confronti della società. Ecco perchè il futuro dei giovani deve essere una priorità nazionale e ricorrere frequentemente nelle agende politiche dei governi di ogni parte del mondo.
Dopo un periodo di stabilità perdurato sino al 2007, il fronte occupazionale giovanile ha subito un brusco calo: dal 2008 la crisi ha destabilizzato soprattutto chi non aveva ancora una collocazione sul piano lavorativo. Da allora, infatti, abbiamo assistito a una decrescita occupazionale dei giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni fino un livello percentuale del 34 % nel 2011, mai raggiunto nella storia dell’Unione Europea. Ai giorni nostri continuano a registrarsi criticità, sia nell’occupazione giovanile (nel gennaio 2025 il tasso di disoccupazione giovanile ha raggiunto il 22,8%), sia nella partecipazione al mercato del lavoro relativamente alla fascia d’età compresa tra 35-49 anni.

Lo attesta l’ISTAT(Istituto Nazionale di Statistica) che il 24 gennaio 2025, in occasione della Giornata Internazionale dell’Educazione, ha diffuso dati così sconcertanti da delineare un quadro molto problematico, anche perchè oggi il fenomeno non riguarda più soltanto la fascia di età in transizione tra la scuola e il mondo del lavoro, ma ingloba una grossa fetta di popolazione.
Una generazione sospesa
Nonostante il generale tasso di disoccupazione italiano risulti in calo rispetto a qualche tempo fa con una diminuzione pari allo 0,6% (a gennaio 2025 si attestava al 6,3%), tra i 25-34enni la disoccupazione cresce. Si tratta di un’altra allarmante criticità: il progressivo aumento degli inattivi, ovvero di quei soggetti che non fanno parte né del sistema educativo, né di quello formativo, né tantomeno di quello lavorativo. Un indicatore, questo, che ci vede al primo posto in Europa con il 33,7% di persone inattive tra i 15 e i 64 anni, rispetto a una media europea dell’11,2%, mentre per i giovani di età compresa tra i 15 e i 29 anni, il progressivo aumento dell’inattività si attesta al 16,1%.
In Germania, nei Paesi Bassi e in Danimarca, con meno del 7% di NEET, si registrano i tassi più bassi; Francia e Regno Unito, con percentuali rispettivamente del 10,2% e dell’11%, si avvicinano alla media europea. L’Italia, invece, si affianca a Grecia e Bulgaria dove i valori oscillano tra il 15 e il 17%, evidenziando una maggiore difficoltà nel fornire ai giovani gli strumenti necessari per entrare nel mondo professionale.
Tutto ciò rappresenta un problema per l’intero sistema economico e sociale del Paese: la mancata partecipazione dei giovani alla forza lavoro contribuisce a una riduzione del potenziale produttivo nazionale, con un impatto negativo sulla crescita economica. A livello sociale poi, aumenta il rischio di marginalizzazione e disagio economico, con un crescente numero di giovani che, ben lontani da responsabili prospettive di autonomia, dipendono ancora dalle famiglie di origine.

Una categoria dalla fisionomia mutevole
I dati diffusi dall’ISTAT suonano come un campanello d’allarme. Se non si interviene con misure efficaci, il divario con il resto dell’Europa rischia di ampliarsi irrimediabilmente lasciando indietro un’intera generazione. Si tratta dei NEET(Not in Education, Employment or Training) acronimo che si traduce letteralmente con “non in educazione, non nel mercato del lavoro o in formazione”. Sfiduciati del futuro, privi di obiettivi e progetti per l’avvenire, rassegnati o semplicemente inattivi per scelta, questa categoria di persone fuori dall’occupazione, dall’educazione e dalla formazione ha smesso di cercare lavoro, non ha intenzione di inseguirlo o si trova nell’impossibilità di sostenerlo.
Quando venne introdotto, nel 1999, il termine NEET focalizzava solo una certa tipologia di soggetti di età compresa tra i 16 e i 18 anni, mentre l’attuale sistema dei NEET include anche individui ultra-trentenni ponendo su di uno stesso piano ragazzi delle scuole medie, giovani adulti pronti per un primo impiego, adulti disoccupati e inabili. Con questa classificazione, che riduce al minimo le peculiarità di ciascun soggetto, si rischia di trovarsi a che fare, senza alcuna distinzione, con minorenni senza titolo di studio, con giovani laureati in cerca di prima occupazione e con adulti senza lavoro. In realtà, la categoria comprende anche coloro che non sono disponibili al lavoro, perchè malati o disabili o in maternità o impegnati in attività accuditive in ambito familiare; coloro che sono solo in cerca di occasioni idonee; gli inattivi per scelta, ovvero i giovani che si impegnano solo in viaggi, percorsi artistici, musicali o in attività di autoapprendimento; i disimpegnati, che includono tutti quelli che non studiano, che non sono inseriti in attività formative o lavorative, e neanche lo desiderano; gli inattivi per scoraggiamento, che hanno smesso di cercare un’occupazione lavorativa perché credono che per loro non esista più alcuna opportunità.

Divario territoriale e di genere
Certo è che l’attuale periodo di incertezza geopolitica e di minaccia bellica incombente contribuisce all’aggravarsi della situazione giovanile in termini di precarietà, con conseguente carenza di disponibilità economiche e professionali a medio e lungo termine.
In Italia il fenomeno risulta particolarmente allarmante se ci si sofferma sulla concentrazione territoriale. L’indagine ISTAT ha messo in luce marcate differenze territoriali in seno al nostro Paese. Se analizziamo il suolo italiano, assistiamo a una grande varietà di ecosistemi correlati tra loro, in considerazione del fatto che il tessuto comunitario è storicamente generato da profonde differenze geografiche e culturali che inevitabilmente si ripercuotono sul vissuto delle famiglie e dei loro figli dando origine a storie di vita, le più disparate. Infatti, continua a dilatarsi il divario interno tra Nord e Sud Italia: nel Nord Italia, la percentuale di NEET è inferiore alla media nazionale, pur restando sempre più alta rispetto agli standard europei; al Sud il fenomeno assume dimensioni critiche, con picchi superiori al 30% in alcune regioni (Calabria e Sicilia). Selezionando, per esempio, la fascia di età compresa tra i 15-34 anni, il tasso di inattività riportato sul sito ISTAT risulta essere il seguente: Nord 14,5%; Centro 18,1%; Mezzogiorno 33%. Questa divaricazione nei contesti di provenienza dei ragazzi, oltre a incidere profondamente nel processo di costruzione della propria identità, riflette anche la persistente difficoltà, in particolare per i giovani delle regioni meridionali, di trovare opportunità di lavoro.
Tracciando una linea teorica, i soggetti maggiormente a rischio sono i giovani con bassi livelli di scolarizzazione: essi presentano alte probabilità di finire nella categoria di quelli che non studiano e non lavorano, rispetto ai coetanei con un’istruzione superiore. Il rischio aumenta nei BES, nei giovani immigrati, in quelli che risiedono in aree periferiche più arretrate e provengono da ambienti familiari difficili e con redditi bassi. E nelle donne, per le quali il rischio di ridursi a Neet è maggiore rispetto agli uomini a causa di diversi fattori, tra cui stereotipi di genere, pressioni sociali e discriminazione sul lavoro, oltre al fatto che il genere femminile è chiamato a rispondere a responsabilità accuditive più di quanto non lo siano i maschi.
Quali scenari per il futuro?
Oltre a essere il Paese europeo con il più alto tasso di NEET, l’Italia si distingue anche per l’elevata disparità territoriale e di genere. Probabilmente, una delle cause è da riporre in motivazioni di tipo sociologico e antropologico.
Già in un approfondimento del 2019, l’UNICEF riscontrò come in Italia il ritardato accesso al lavoro fosse conseguente ad alcune specificità del Paese: la dipendenza economica dei giovani dai genitori a seguito della loro sempre più lunga permanenza nel nido familiare, un’irrisolta parità di genere e il lavoro sommerso.

Anche l’educazione ricevuta nell’ambiente familiare può incidere sui livelli di attività dei giovani. Il benessere familiare è per un ragazzo il miglior antidoto all’insorgenza del fenomeno, mentre contesti caratterizzati da povertà materiale ed educativa, da una mediocre qualità dei servizi territoriali e da una trasmissione intergenerazionale di pregiudizi e disuguaglianze socio-culturali possono incidere sulle radici del fenomeno. La scuola, dal canto suo, non può azzerarlo; può semplicemente intervenire sul profilo di scolari che evidenziano problematiche, causando talvolta fallimenti ripetuti e derive motivazionali.
Il fatto è che l’emancipazione socio-culturale ed economica dei cittadini attiene a una responsabilità collettiva delle Istituzioni. E’ per questo che gli inattivi meritano tutto il nostro interesse, in particolare i giovani NEET cui va concessa un’attenzione particolare. Di fronte all’attuale scenario, che contribuisce al calo demografico già registrato ai minimi storici, l’Italia dovrebbe puntare su un welfare giovanile più solido, che rendesse più agevole il passaggio dalla scolarità alla maturità e contribuisse a rendere i giovani responsabilmente autonomi.
Da non dimenticare che tra gli impegni dell’Agenda ONU 2030 c’è l’obiettivo n.8 che prevede piena occupazione e condizioni decorose per tutti: crescita economica duratura, aumento della produttività e creazione di posti di lavoro dignitosi. Se riuscissimo a raggiungere questo traguardo, il tasso di occupazione della componente giovanile accrescerebbe e il numero degli inattivi potrebbe ridursi drasticamente. Riusciremo “a riveder le stelle” nel firmamento occupazionale?