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Facebook ha 20 anni, ma non li dimostra

Facebook, il decano dei social network, il più popolare e utilizzato di tutti i tempi, ha appena compiuto vent’anni: un tempo abissale se si considera che per un social un decennio di vita corrisponde pressappoco ad un secolo per una persona fisica.
Negli ultimi anni, tuttavia, sembra che abbia registrato un calo di fruitori tra i teenager: molti adolescenti, che si dichiarano insoddisfatti di questa piattaforma perchè incapace di incontrare i loro gusti, sono approdati ad altri social, soprattutto Instagram e Tik Tok che non esistevano quando, nel febbraio 2004, Facebook fece la sua prima comparsa come strumento per allacciare amicizie tra gli studenti di Harvard. In ogni caso, pur essendo in uso soprattutto tra persone di età superiore ai 35 anni, Facebook continua ad esistere e a mantenere un posto di rilievo tra i giganti tecnologici che governano il traffico dei dati dell’intero pianeta (Google, Apple, Amazon e Microsoft) con oltre 2 miliardi di utenti attivi nel mondo -un quarto circa della popolazione mondiale- e quasi 30 milioni di italiani che accedono alle sue pagine.

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Oggi Facebook, gestito dall’impresa statunitense Meta che controlla i suoi servizi di rete sociale, ha poco da condividere con la creatura partorita da Zuckerberg vent’anni fa. Oltre al fatto di essersi reso più semplice, veloce e gratuito, tra gli impieghi più diffusi si riscontra la creazione dei cosiddetti ‘gruppi Facebook’: ambiti pubblici in cui gli user possono connettersi con il mondo per discutere su specifiche tematiche, per condividere interessi e passioni. Certamente non si tratta di una novità: gli attuali gruppi Facebook sono eredi, sia dei Forum, riunioni pubbliche per discutere argomenti d’interesse culturale, sociale o politico, sia delle prime community virtuali, le BBS (Bulletin Board System), che si diffusero dalla seconda metà degli anni ’80 sino agli inizi degli anni ’90 consentendo il collegamento da remoto tra un computer ed un altro per pubblicare annunci, scambiare messaggi, condividere file. A differenza delle BBS, però, gli odierni ‘punti di ritrovo’ telematici si configurano come spazi di condivisione in cui gli utenti, definendo precise regole di condotta dettate dal buon costume [1], si autodisciplinano e ciò consente ai gruppi di godere di una buona qualità dialogica e comunicativa.

Il primato del soggetto nell’era biomediatica

Nonostante l’età, Facebook è comunque uno dei media che ha rappresentato e sostenuto il passaggio alla società biomediatica in cui siamo immersi. Caratterizzata dalla condivisione telematica delle biografie personali attraverso i social che offrono gratuitamente spazi divulgativi pressoché infiniti, l’utente -impegnato a trascrivere in tempo reale la propria vita attraverso post, video e foto- diventa il protagonista assoluto del panorama mediatico globale. Conquistatosi il centro della scena, è lui stesso che, decidendo tempi e modalità di fruizione dei dati personali che produce in gran quantità, interviene sui propri fattori di identificazione.

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Nella società performativa in cui vive, costruita sull’ossessiva spettacolarizzazione e sulla fruizione collettiva di tutto ciò che fa, l’utente -in ossequio al culto esasperato della performance- offre ad uno sguardo diffusamente ‘spettatoriale’, gran parte delle attività sociali che intraprende, quasi un inevitabile diktat sociale.
Performarsi, in una società dominata dal web, è diventata infatti la parola d’ordine. E i social ci hanno insegnato a farlo, trasformandoci in performer, in autori di un’autonarrazione filtrata sulla base di ciò che decidiamo di mettere in evidenza della nostra realtà. Perchè lo scopo è quello di fornire di sé una performance, ossia conferire una certa ‘forma’ alla propria identità mediante la costruzione di un’immagine edulcorata di sé da mettere in ‘vetrina’ ed usare per accrescere in stima e considerazione -aumentare il ranking[2]- e, quindi, amplificare la propria visibilità.

Metaverso e diritto di immagine

La vetrina, con la sua trasparenza, è una perfetta metafora del modello di comunicazione che tende oggi a prevalere. Vetrinizzandosi, l’utente si espone allo sguardo dell’altro, dopodichè non può più sottrarsi al suo giudizio. Ecco perchè i contenuti che vengono esibiti sono ciò che c’è di più positivo di sé stessi. Su queste ‘vetrine’ sociali, che ospitano le idee, le opinioni, gli sfoghi, le esultanze, le rabbie e gli amori di miliardi di soggetti anonimi, l’esistenza si costruisce sulla percezione che gli user hanno di noi: ogni azione che compiamo online va ad incidere sulla nostra web reputation[3].
Purtroppo questi palcoscenici virtuali, in cui gli ‘attori’ costruiscono la propria identità, sembrano prendere il posto dei luoghi della memoria e delle tradizioni, e con essi dei rapporti veri tra persone dall’aspetto umano. Infatti i social

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vere e proprie agenzie di aggregazione e socializzazione- sono stati ideati per favorire l’avvio di relazioni sociali eludendo la complessità dei rapporti interpersonali reali. E ciò risulta particolarmente utile per quei soggetti che hanno difficoltà nelle relazioni face to face perchè non riescono ad esporsi e, magari, a trovare le parole giuste con cui poter esprimere le emozioni che li pervadono o le tensioni che li agitano. Inoltre, ciò consente a tutti i giovani di soddisfare altre rilevanti esigenze: non essere mai soli, essere ascoltati, poter scegliere in ogni momento dove dirigere l’attenzione fornendo voce e significato ai propri pensieri.

Il ruolo strategico della cultura algoritmica

Nelle attuali società avanzate si registra anche l’ascesa di una cultura algoritmica che ha ingenerato significative trasformazioni socio-comunicative.
Oggi ciò che decreta sul mercato il successo o l’insuccesso di un social è il sistema degli algoritmi, quei sistemi computerizzati il cui compito è quello di mostrare all’utente ciò a cui è maggiormente interessato. Offrendogli contenuti che lo lusingano, che assecondano i suoi interessi e gli assicurano una comfort zone, gli restituiscono storie e temi simili a quelli che egli, come utente, aveva selezionato a conferma dei propri gusti: ogni azione digitale compiuta, ogni ricerca, ogni piccolo dettaglio di quello che un tempo era il suo privato passa sotto una minuziosa lente di ingrandimento che gli restituisce soltanto i contenuti su cui non può che essere d’accordo. Ed è proprio in questo che sta la popolarità dei social: quanto più gli algoritmi fagocitano i dati personali rilasciando contenuti personalizzati, tanto più la piattaforma riscuote consensi.

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La governance dgli algoritmi

I famelici algoritmi sono diversi da piattaforma a piattaforma, ma condividono tutti un criterio comune: ‘programmare’ le menti degli utenti mostrando loro ciò che vogliono vedere quando si trovano su quel sito.
E’ così che funzionano i social. Vengono raccolte informazioni sul comportamento degli user e, sulla loro scorta, vengono scelti, da presentar loro, i contenuti che con maggiore frequenza riscuotono il loro interesse: sfruttando le loro vulnerabilità emotive, i social creano un loop[4] di validazione sociale in cui il like, che consente di condividere un contenuto, funge da neurotrasmettitore di piacere. Nel gennaio 2018 Zuckerberg descrisse il funzionamento di un punto cardine dell’algoritmo di Facebook: la meaningful interaction, ovvero il criterio secondo cui, nello scegliere i contenuti da visualizzare, è preferibile dare maggiore rilevanza ai post di amici e familiari, rispetto a quelli di pagine o gruppi.

Applicazioni del pensiero computazionale

Il sistema algoritmico, che crea in automatico contenuti su misura, solleva questioni di ordine etico e legale. Perchè i dati riguardanti i comportamenti di consumo degli user, che si accumulano in quantità e velocità sempre maggiori, non vengono acquisiti sottoponendoli a domande di ricerca, interviste o questionari, né desunti da censimenti, ma intercettati direttamente dai social e trattati con metodi computazionali. Solo così è possibile integrare un’incredibile mole di dati complessi, non strutturati, variabili e sempre più diversificati, i Big Data, nell’intento di rinvenire al loro interno connessioni incrociate, utili a tratteggiare un modello, un profilo, una categoria sociale, sulla base di determinate caratteristiche che sono emerse. Questi pattern [5] non possono essere analizzati con i tradizionali metodi di elaborazione dei dati, ma necessitano di speciali tecnologie di analisi che combinano conoscenze informatiche, matematiche e statistiche. Qui il riferimento va agli algoritmi del ML-Machine Learning[6] e del Data Mining[7] noti anche come evoluzione delle reti neurali.

Algoritmi tra sfide e rischi

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Il rischio è che, conferendo credibilità alle proprie convinzioni in virtù del consenso virtuale, amplificato e rinforzato dalla sua replica in seno ad un’echo chamber[8], si potrebbe giungere a confondere l’approvazione sociale con la realtà. Alla luce di questa strategica progettazione degli algoritmi potrebbe sembrare che tutti gli accadimenti del mondo confermino la nostra visione; in realtà, ciò che vediamo altro non è che un’ulteriore replica del nostro pensiero, come se stessimo parlando con un’eco perenne. Avendo a che fare sempre con lo stesso tipo di contenuto è facile convincersi di come la propria visione del mondo sia l’unica accettabile, rendendo sempre più difficile mettere in discussione le proprie opinioni. Ed è fisiologico che ogni essere umano abbia la tendenza a inserirsi in una community dove le persone la pensano come lui e con lui condividono le medesime convinzioni. In realtà, cercare conferme a sostegno delle proprie idee rigettando quelle che le contraddicono, altro non è che una forma di autoinganno tesa a preservare le proprie sicurezze e identità. Sarebbe giusto, invece, che gli user non si ponessero nella condizione di semplici fruitori passivi dei contenuti che vengono loro sottoposti dagli algoritmi, ma cercassero attivamente ciò che desiderano consultare. Anzi, sarebbe ancora meglio se prendessero in considerazione anche quelle informazioni che non si allineano al loro pensiero, in modo da verificarne le fonti, sottoporle a confronto, e solo alla fine approdare ad una propria opinione. Radicalizzando la propria visione del mondo, si corre il rischio di non accettare alcun pensiero che differisca dal nostro e di odiare chi la pensa in modo diverso. Inoltre, compararsi solo con un insieme limitato di contenuti riduce l’ingegnosità e spegne quello slancio creativo che scaturisce proprio dal raffronto tra idee cognitive dissonanti. Da qui la necessità di rinvenire nuovi equilibri a fronte di questa convulsa diffusione e manipolazione di contenuti, aiutando soprattutto i giovani utenti a rovesciare l’attuale paradigma di sudditanza virtuale. Perchè è solo sovvertendo quel rituale sistema di norme e ruoli che accompagna la vita della community, che è possibile educarli alla criticità, avviarli ad un’umanità più consapevole, e farne utenti liberi e responsabilmente attivi.

Note:

[1] Il riferimento va alla cosiddetta Netiquette, con cui s’intende l’insieme delle regole che disciplinano il comportamento che le persone devono avere su Internet.
[2] Ranking è il posto occupato in una graduatoria di merito.
[3] Web Reputation o reputazione online di una persona è data dalla percezione che gli utenti del web hanno di quel soggetto.
[4] Il Loop è una successione di operazioni eseguite ciclicamente dal calcolatore fino al conseguimento dei risultati prefissati.
[5] I Pattern sono schemi che è possibile replicare all’infinito.
[6] Machine Learning è un set di approcci euristici che consente di creare un modello dai dati.
[7] Il Data Mining (in italiano, estrazione dati) è il processo di estrazione di informazioni utili da un accumulo o una raccolta di dati (Big Data).
[8] Echo Chamber o camera d’eco è la descrizione metaforica di una situazione in cui le informazioni, vengono amplificate o rafforzate dalla loro ripetizione all’interno di una piattaforma di condivisione online.


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Angela Gadducci
Author: Angela Gadducci

Angela Gadducci è una professoressa con incarico articoli per la sezione etica e società ma anche storia e cultura. Già Dirigente scolastica e Coordinatrice di Attività di Ricerca didattica presso le Università di Pisa e Firenze, è autrice di articoli e libri di politica scolastica. Significative le sue collaborazioni con le riviste Scuola italiana Moderna, Scuola 7, Continuità e Scuola, Rassegna dell’Istruzione, Opinioni Nuove, Il Mondo SMCE.

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