Foto di hosny salah da Pixabay
Visualizzazioni: 3

Unione Europea fra ambiguità e divisioni interne

E’ ormai universalmente noto come all’interno del conflitto israelo-palestinese a contrapporsi a Israele siano gli abitanti della Palestina, la cui definizione politica risulta ancora oggi incerta. Di fatto, lo Stato di Palestina non può al momento essere riconosciuto come tale, perché non esiste. Tuttavia, per quanto l’UE come istituzione economico-politica sovranazionale non lo abbia riconosciuto, la sua posizione ufficiale  dell’Unione nel conflitto israelo-palestinese è a favore di una soluzione a due Stati, approccio formalizzato in diverse risoluzioni del Consiglio Europeo.

Foto di Erich Westendarp da Pixabay

L’UE ritiene, infatti, che l’unica via per una pace duratura sia la coesistenza di due Stati sovrani e democratici: uno Stato palestinese indipendente, democratico e coeso che viva in pace e sicurezza al fianco dello Stato di Israele, entrambi delimitati da confini reciprocamente riconosciuti e sicuri (i confini del 1967), con scambi territoriali mutuamente concordati, con Gerusalemme come futura capitale di ambedue gli Stati e con uno status speciale che garantisca la libertà di culto.

Ma, seppur condivisa a livello istituzionale, questa posizione è spesso complicata e indebolita da profonde divisioni interne tra gli Stati membri. Alcuni di essi hanno provveduto a riconoscere lo Stato di Palestina unilateralmente: la Polonia, la Slovacchia e l’Ungheria lo hanno istituzionalizzato nel 1988; la Città del Vaticano nel 2015; più di recente, anche Paesi come Svezia, Spagna, Irlanda e Slovenia hanno proceduto al riconoscimento, seguiti da altri come Portogallo, Francia e Malta.

Altri governanti europei più cauti, come l’Italia, non lo hanno ancora fatto, preferendo legarne l’ufficializzazione alla conclusione di un accordo di pace. Essi sostengono che al momento lo Stato della Palestina non può essere riconosciuto perché esiste solo sulla carta: innanzitutto deve essere costituito, ma il suo riconoscimento -sostiene Meloni- dovrà comunque essere subordinato, sia alla liberazione degli ostaggi che all’esclusione di Hamas da qualsiasi governo. Questi schieramenti in seno all’UE, rendono difficile il raggiungimento di una posizione comune iniziando ad assumere la forma di un serio e incoerente problema di politica interna.

Foto di hosny salah da Pixabay

Ma c’è anche un’altra immagine di contraddittorietà offerta dall’Unione: essa figura come il principale donatore di aiuti umanitari e finanziari ai palestinesi investendo in progetti di sviluppo, cooperazione e sostegno alla società civile, ma al contempo intrattiene relazioni economiche, commerciali e diplomatiche significative con Israele riconoscendone il diritto alla sicurezza. In altri termini, a mettere a dura prova la coesione europea intervengono due situazioni contrapposte: pur avendo condannato senza riserve gli attacchi di Hamas e ribadito il diritto di Israele a difendersi, l’UE ha al contempo sottolineato la necessità di rispettare il diritto internazionale umanitario. Questa ambiguità, che dà vita a un paradigma di forza e debolezza, è indice della mancanza di coesione interna all’Unione che le impedisce di agire con la necessaria fermezza. Tutto questo accresce il livello di prostrazione e la percezione che l’escalation della violenza stia rendendo impossibile la soluzione a due Stati.

La precedente negazione dell’identità palestinese

Anche in passato l’identità palestinese è stata messa in discussione. Già nella Dichiarazione Balfour del 1917 ci si riferiva ai palestinesi parlando semplicemente di popolazioni “non ebraiche”; lo stesso anche in occasione della dichiarazione resa nel 1969 al Sunday Times dalla premier israeliana Golda Meir:

-“Non esiste un popolo palestinese, non è come se noi fossimo venuti a metterli alla porta e a prendere il loro paese. Essi non esistono”, questa dichiarazione di Golda Meir, riflesso della politica di un’epoca passata (un’epoca di forte tensione dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967), fu estremamente controversa determinando un impatto duraturo sulla percezione del conflitto. Mirando a delegittimare le rivendicazioni territoriali dei palestinesi,  cercò di respingere le accuse di espropriazione e pulizia etnica, presentando il conflitto come una questione di sicurezza, piuttosto che come una disputa su diritti nazionali. Le sue parole contribuirono a polarizzare ulteriormente il dibattito, lasciando un segno profondo nella memoria collettiva di entrambe le parti. Questo genere di incomprensioni scaturisce dal fatto che il concetto di identità di un popolo, in Occidente si fonda sui concetti di “nazione” e “nazionalità”, mentre in Medio Oriente è storicamente più legato a un’appartenenza di tipo religioso. I palestinesi sono una popolazione a maggioranza musulmana che nell’islamismo, ovvero nella politicizzazione dell’islam, ha trovato i mezzi per esprimere la sua opposizione al popolo israeliano considerato invasore: la vittoria di Hamas alle elezioni palestinesi del 2006 rappresenta senza dubbio un indice di questa ‘islamizzazione del dissenso’ di cui Israele può forse essere considerata indirettamente responsabile.

La condanna di Hamas e il rispetto del diritto internazionale

L’Unione Europea si trova ad affrontare un delicato e complesso equilibrio nel conflitto israelo-palestinese. Nonostante le divergenze tra gli Stati membri, l’UE ha stabilito due punti fermi nella sua politica estera: l’aver inserito Hamas nella lista delle organizzazioni terroristiche di cui condanna fermamente le azioni, inclusi gli attacchi del 7 ottobre 2023, e l’aver considerato illegali gli insediamenti israeliani nei territori palestinesi occupati, nel rispetto del diritto internazionale. Questi insediamenti, sorti in seguito alla conquista militare della Cisgiordania, di Gerusalemme Est, della Striscia di Gaza, della penisola del Sinai e delle Alture del Golan, rappresentano un ostacolo insormontabile alla soluzione a due Stati e, quindi, a un accordo di pace. L’UE ritiene, infatti, che il rispetto del diritto internazionale sia la chiave di volta per una pace duratura.

Foto di hosny salah da Pixabay

Intanto la situazione di Gaza ha generato una crescente frustrazione all’interno dell’UE. La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha persino proposto l’applicazione di sanzioni contro ministri israeliani ‘estremisti’ e coloni violenti. Inoltre, ha sollevato la possibilità della parziale sospensione di un accordo di associazione commerciale con Israele.

Tuttavia, l’attuazione di queste misure rimane incerta a causa della necessità di ottenere un consenso unanime da parte dei 27 Stati membri, che rende la via della diplomazia europea una strada ancora in salita.

L’importanza dei confini del 1967

Il ritorno ai confini del 1967, con scambi di terra reciprocamente concordati, sarebbe la base per la soluzione a due Stati proposta dalla comunità internazionale per la risoluzione del conflitto. Tuttavia, la continua espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania e la convinzione di Israele che considera quei territori come “contesi” e non “occupati”, rendono difficile il raggiungimento di un accordo. In passato alcune fazioni palestinesi, come Hamas, avevano espresso la disponibilità a sostenere uno Stato palestinese all’interno dei confini del 1967(Cisgiordania e Striscia di Gaza, con Gerusalemme Est come capitale), ma questa posizione non può essere considerata un’accettazione definitiva della soluzione a due Stati, come intesa dalla comunità internazionale.

A differenza dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), che riconoscendo Israele e intraprendendo negoziati fondati sulla soluzione a due Stati, cercava una soluzione politica e diplomatica permanente, l’approccio di Hamas sembra poggiarsi su una strategia nota come hudna, ovvero una tregua a lungo termine, che non si basa su un riconoscimento genuino dello Stato di Israele, ma piuttosto su una sospensione temporanea delle ostilità in cambio del ritiro israeliano dai territori occupati.

Nel 2017 Hamas pubblicò una Carta del movimento, denominata “Documento di Principi Generali e Politiche”, nel quale, pur ribadendo che la soluzione a due Stati e il ripristino dei confini del 1967 rappresentavano una formula di consenso nazionale, accettava la creazione di uno stato palestinese entro i confini antecedenti la Guerra dei Sei Giorni, pur senza rinunciare a rivendicare l’intera Palestina. Il PIJ (la Jihad Islamica Palestinese) respinse con rabbia quel documento, nel quale Hamas riformulava un atto del 1988 in cui sosteneva la creazione di uno stato palestinese sulle rovine di Israele e descriveva la Palestina come un’entità religiosa che apparteneva a tutti i musulmani ed era meritevole del loro sacrificio in nome di un’entità territoriale nazionale. L’attuale accettazione dei confini del 1967 da parte di Hamas non sarebbe, dunque, un riconoscimento dello Stato di Israele, ma piuttosto la fase tattica verso un obiettivo finale più ampio: ottenere il controllo sui territori del 1967 senza abbandonare il traguardo di una Palestina completamente libera.

La difficile ricerca di una pace duratura

Questa divergenza fondamentale tra la visione di una pace duratura e la strategia di una tregua tattica crea una frattura insanabile che rende la soluzione a due Stati un ideale sempre più lontano. La coesistenza pacifica sembra impossibile finché una delle parti non rinuncerà a rivendicare l’intera area. Il dialogo diplomatico, centrato sul presupposto del riconoscimento reciproco, rischia di trasformarsi in un esercizio sterile, mentre la violenza e la diffidenza continuano a dominare la narrazione del conflitto alimentando un circolo vizioso di reazioni e vendette.

Foto di Couleur da Pixabay

La situazione attuale, con la sfiducia reciproca sempre più radicata, suggerisce che la strada verso una risoluzione pacifica è ancora lunga e tortuosa, e che l’idea di una coesistenza fondata su due Stati sovrani e sicuri è, al momento, un’utopia.


 

 

 

 

Visualizzazioni: 3
Angela Gadducci
Author: Angela Gadducci

Angela Gadducci è una professoressa con incarico articoli per la sezione etica e società ma anche storia e cultura. Già Dirigente scolastica e Coordinatrice di Attività di Ricerca didattica presso le Università di Pisa e Firenze, è autrice di articoli e libri di politica scolastica. Significative le sue collaborazioni con le riviste Scuola italiana Moderna, Scuola 7, Continuità e Scuola, Rassegna dell’Istruzione, Opinioni Nuove, Il Mondo SMCE.

0 Condivisioni